IL DISTURBO DELL’IDENTITÀ DI GENERE

Nel DSM-5, pubblicato in Italia nel 2014, questa espressione non esiste; ciò che in precedenza (DSM-IV) era classificato sotto questa denominazione, descritto nel capitolo dei Disturbi sessuali e della Identità di genere, viene, modernamente, descritto in un diverso capitolo, proprio perché non si tratta di un disturbo, in senso clinico, ma di una condizione dell’individuo che può causare un disagio clinicamente significativo, definito come Disforia di genere.

Parlare quindi nel 2019, anno in cui è stata emessa la sentenza della quale è a lato uno stralcio, ancora di disturbo dell’identità di genere, è segno di mancato aggiornamento professionale.

Non addebitabile ovviamente ai Giudici ma ai professionisti incaricati di svolgere l’accertamento tecnico, CTU e CTP delle due parti.

Ma oltre che di arretratezza professionale, l’affermazione di cui sopra è segno di una grande ignoranza della psichiatria.
Alla pag. 534 il DSM-5 riporta, per la disforia di genere, i fattori di rischio; sono riportati fattori temperamentali (es. comportamento atipico rispetto al genere sin dall’età prescolare), fattori ambientali (es. abituale travestimento feticistico, autoginofilia), fattori genetici e fisiologici (es. forse un certo grado di ereditabilità). Ma in nessuna riga si legge, nel DSM-5, che “quando un minore rifiuta di frequentare un genitore, il minore potrebbe sviluppare un disturbo di identità di genere“.

E quindi? I professionisti di cui sopra, questa cosa se la sono inventata?
Prendendosi così gioco dei Giudici e della Giustizia?
Ma è la regola che nelle CTU gli psicologi giuridici si prendono sistematicamente gioco dei Giudici e della Giustizia; non se ne sono ancora accorti? Fino a quando i Giudici e la Giustizia hanno intenzione di continuare a farsi prendere in giro dagli psicologi giuridici?

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